mercoledì 22 aprile 2020

TOY STORY

TOY STORY

Da figlio dei mitici anni 80 sono sempre stato un grande appassionato di giochi... da tavolo, all'aperto, di gruppo, di carte, preziosi e a basso prezzo.
Avevo un gran voglia di crescere ma pur di giocare rimanevo sempre bambino. In un'epoca da guerra fredda, il tempo era mio alleato ed il nostro armistizio era una resa senza condizioni.
Da figlio unico ho speso tutta la mia ricchezza d'animo nella mia sala giochi preferita. Casa mia.
Ogni stanza era una distanza che percorrevo a cavallo di una fantasia galoppante. E puntualmente raggiungevo la mia Samarcanda, dove la noia si perdeva sempre nell'infinito di una gioia.
Mi piaceva giocare senza frontiere.
L'ingresso di casa era un campo da calcio di palline di spugna che lavavano ore sporche di sudore e assorbivano sogni ingenui di gloria.
Gettavo la spugna solo dopo l'ennesima paura di rompere quel soprammobile che aveva già rotto.
La camera da letto era un materasso gonfiabile di salti e lo specchio rifletteva sulla mia ingenua vanità di ammirarmi sospeso nelle mie arie da circense. Mi ritrovavo sempre KO, ma comunque OK, a fissare sorridente un soffitto troppo basso.
Il tinello era il campo di battaglia tra soldatini strisciati di stelle ed indiani d'America. I pellerossa, sempre vittoriosi, ribaltavano una storia che non avevo ancora studiato.
Le sedie del tavolo erano gli ostacoli nei circuiti impossibili di macchinine sbeccate in scontri frontali e di ruote perse e mai ritrovate. Il divano era la mia fuoriserie, con gli esterni in pelle, che guidavo con un volante a disco per 33 giri. Facevo una sosta, giusto per la merenda.
Modellini di aerei sorvolavano la mia testa, già piena di viaggi e giri del mondo in 80 giorni. Li facevo poi atterrare su piste di auto e trenini elettrici, come i fili scoperti dei miei nervi per un bagno da fare prima di cena.
Nel bagno, la vasca era una piscina olimpionica con uno stile tutto suo; libero come una farfalla oppure come una rana che si trasformava in un delfino. E quando la schiuma di onde saponate spariva, battaglie navali di shampoo e balsami inondavano il pavimento di quell'acqua, da asciugare con il tappeto.
Il balcone era la finestra sul mondo. Quando il sole mi dava il permesso di scendere, incontravo gli amici di scuola e di strada, anche lei insegnante. La palla era la nostra migliore amica, anche se la prendevamo sempre a calci, per colpire un Muro che sarebbe caduto da li a poco. E quando la palla si sgonfiava di noi e rimaneva a terra, noi giocavamo d'anticipo per non essere impreparati...
figurine di calciatori da scambiare, nascondini da trovare, settimane e sassi da contare, un fazzoletto da strappare dalle mani, una corda da saltare, un'hula-hop da roteare, una cavallina per cadere, biglie colorate da colpire, una guerra da simulare, guardie e ladri da arrestare, un vecchio copertone da rincorrere, una mosca cieca da prendere, un elastico da allungare.
E se il cortile era troppo corto, la corte dei miracoli era il nostro oratorio.
Se poi l'odiata pioggia spegneva gli animi, ci scaldavamo nei dadi lanciati in battaglie di Risiko e risate, di Monopoli in stato di grazia e nel gioco da pelle d'Oca.
Avevamo forse poco, ma quel poco per noi era tutto un gioco. Di società.
Ed il mio personaggio di questo ruolo inventato continua a giocare, anche oggi, con le lettere di uno Scarabeo, di un nuovo buongiorno.
Il mio amuleto portafortuna.

Buona giornata
       

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